martedì 30 agosto 2016

Ventottesima tappa: ingresso a Mosca! Una piccola Campagna di Russia a lieto fine





Dalla Collina dei passeri si vedono tutta la città, nell’alba lattiginosa, e il Cremlino.
Finalmente. Da non crederci.
E’ il 14 settembre 1812.
Napoleone si emoziona. Non capitava da anni, forse secoli, vecchio com’è diventato in quella marcia estenuante verso est.
Finalmente Mosca. Sfaccettata nel prisma delle invisibili lacrime di gioia, eccola nei suoi colori pastello dell’azzurro e del legno.
I russi se ne sono andati. L’esercito si è ritirato a sud, in una zona fertile e calma. La popolazione, semplicemente, ha abbandonato le case e si è spostata nelle campagne orientali. Paura o patriottismo? Ai posteri l’ardua sentenza.
La Grande armata entra in città senza trovare ostacoli. Non c’è nessuno.
Le strade sono deserte, vuote le case, i palazzi, le chiese. Non c’è nessuno.
I soldati si acquartierano, Napoleone si sistema al Cremlino, dove viveva lo zar. Non c’è nessuno.
Nessuno ad arrendersi, nessuno a chieder pietà e pace all’invasore, nessuno a sottomettersi al vincitore. Napoleone ha conquistato una manciata di finestre, di usci, di croci e tegole. Una manciata di vuoto silenzio. Non c’è nessuno.
Il 16 settembre scoppia un incendio, probabilmente appiccato dagli stessi moscoviti, che, fra l’altro, fanno sparire ogni mezzo utile a domar le fiamme. Il fuoco abbraccia i francesi con la sua stretta di morte, Napoleone deve lasciare il Cremlino. Per due giorni Mosca brucia.
I soldati, nella grandiosa catastrofe, saccheggiano le case, si ubriacano, dimenticano ordine e disciplina. Nei loro occhi lucidi si riflettono quei bagliori rossi d’inferno e tutto è caos.
Il 18 Bonaparte torna negli appartamenti dello zar e riesce a rimettere in riga l’esercito.
Inizia così l’attesa fatale che gli costerà tanto cara. Fino a metà ottobre l’imperatore tenterà di ottenere dallo zar la resa, prima, e una pace di compromesso, poi. Ma Alessandro è, con i suoi uomini e la sua gente, per la resistenza a oltranza contro quel piccolo anticristo venuto da Parigi. Sta arrivando l’inverno. I mugiki, i contadini, bruciano i propri campi perché non nutrano il nemico, e, con i partigiani e i cosacchi, conducono una spietata guerriglia di cascina in fienile, nei boschi e tra i fossi. Sarà Napoleone stesso a decidere di lasciare Mosca, il 19 ottobre, con tutti i suoi uomini, il seguito di civili e straccioni e 40.000 carrozze e carretti colmi del bottino raccolto in città.
Troppo tardi.
Quella ritirata ueQsarà l’inizio della fine.

30 settembre 1941.
Parte l’operazione Tifone, il capitolo più importante dell’operazione Barbarossa.
Hitler, come il francese duecento anni prima, vuole il Cremlino. Vuole Mosca.
Nelle tre settimane precedenti l’esercito del Reich era riuscito, con una vittoriosa guerra lampo, ad avvicinarsi all’obiettivo.
Ora non resta che conquistare la capitale. Ma arrivano la pioggia e la neve. Stalin, intanto, schiera 1.500.000 soldati a difesa della città. 500.000 cittadini si mobilitano e approntano 8.000 kilometri di trincee, 100 kilometri di fossati anticarro e 300 kilometri di reticolati, sbarramenti di tronchi e barricate. Una ragnatela insuperabile. I non idonei al combattimento vengono evacuati. Si proclama lo stato d’assedio. La salma di Lenin viene messa in salvo e Stalin comunica l’intenzione di restare a Mosca ad affrontare il nemico. I tedeschi falliscono un primo attacco alla città, protetta dal fango, dal gelo e dal patriottismo disperato dei russi. Gli assediati festeggiano l’anniversario della Rivoluzione e Stalin esorta alla resistenza ad oltranza. Fallisce anche il secondo tentativo d’assalto tedesco. A quaranta gradi sotto zero le armi si inceppano, le dita si irrigidiscono, congelate, e cadono. I soldati nazisti restano impantanati con i loro carri e non ricevono più rifornimenti. Fame e freddo mettono in ginocchio le forze della Wehrmacht.
Il 5 dicembre l’Armata rossa contrattacca. Sull’intero fronte, con un dispiegamento di un milione e mezzo di soldati. Non ci sono dubbi. I tedeschi sono costretti alla ritirata. I fanti, mal equipaggiati, muoiono nella neve come mosche. I carri si bloccano. Le tormente disperdono interi battaglioni. Un inferno di ghiaccio. La lezione verrà ribadita tra luglio ’42 e febbraio ’43 a Stalingrado, ma quella è un’altra storia.

Ovvìa, facciamola breve.
Napoleone e Hitler qui non hanno concluso un fico secco.
Io, con tutta la modestia del paragone, sì.
Che il segreto del successo sta tutto nel limare le pretese. E muoversi d’estate.

Al di là del gongolio spropositato, che è una voluta esagerazione autoironica, sono proprio felice. Felicissima!
Questi ultimi tre giorni si sono presentati ben più ardui del previsto.
Un po’ come per le altre due campagne di Russia… Sembrava ormai fatta, e invece…
Ieri sera sono andata a dormire con ben poche certezze riguardo alla tappa di oggi. Non avevo più camere d’aria, quelle trovate qui avevano la valvola incompatibile con il mio cerchione e, peggio del peggio, il copertone si era sformato e risultava inutilizzabile.
L’unica chance era quella di tornare, per l’ennesima volta, dal ciclista di Mozhaysk e arrangiare qualcosa, il minimo indispensabile per questi ultimi 100km. Farsi fermare così a un passo dall’arrivo sarebbe stato davvero inaccettabile. Piuttosto a piedi trascinando la Signora azzoppata.
Mi sono svegliata presto per tentare ogni via. Ore 6.30 colazione offerta dall’ostello. A scelta: pizza, spaghetti al ragù, trippa e fagioli, sarciccia. Mentre il barista si è preparato una quattro formaggi (con pane)



Io ho optato per l’ormai consueto *vusterone, in questo caso accompagnato da gommosa chioma di spaghetti dell’altroieri, tirati fuori dal frigo sconditi e nemmen salati. E va be’, sempre carboidrati sono. O idrocarburi.



Poi via dal ciclista, 23 anni, culo grosso, nome d’arte “Two wheels”. Ragazzo affabile e assolutamente incapace di metter le mani su una bici se non per cambiare una camera d’aria o cavolate così. Il suo negozio è un magazzino vuoto, con accatastati, in un angolo, quattro attrezzi, qualche ciclocancello, sci del ‘15-’18 e tantissime macchinine a pedali e tricicli e giochi consimili.



Dandogli in mano la ruota montata e con evidente prolasso di camera d’aria, ha però capito di cosa avessi bisogno. Fatto shopping, ho armeggiato per lungo tempo per allargare il foro del cerchione, con il coltello, alla bruttissima. Dai e dai, metallo su metallo, la valvola cicciona è passata. Da lì è stato tutto un riuscire: a mettere il soviet-kopertone nuovo, a rimontare la ruota, il raggio che si era staccato (anche) e il portapacchi tutto ammenciato. Nel giro di un’ora la Signora stava in piedi sulle sue gomme. Una fina, bella, scorrevole. L’altra grossa, tassellatissima, pesante. Quasi un cingolo. O un cinghiale. Morto. Da trascinare nel fango legato dietro alla bici. Ma questo lo avrei sentito bene una volta in sella.




Insomma, cielo grigio nonostante, ero di ottimo umore. Ero pronta a ripartire. Altro che marcia forzata, altro che treno, altro che taxi. Io e la Signora on the road again.
E via, mi son rimessa in strada. Oggi c’era poco da sbagliare: dovevo seguire l’autostrada M1 praticamente fino a 2km prima dell’hotel.



Vogliamo dirlo? Diciamolo: è stato un inferno.
Il vento era fortissimo (anche adesso fa ululare alberi e lamiere), a raffiche che mi facevano perdere il controllo preciso della bici. La strada era conciata di buche, gobbe infide dell’asfalto e lavori in corso, sabbietta e sassi appuntiti. Non c’era quasi mai bordo, e dovevo stare sulla corsia, con i camion e le auto a 120 a pochi centimetri da me (perché mica si dan pena di scostarsi, piuttosto ti tagliano la fettina di prosciutto).
In tutto questo, aggiungiamo il grip del copertone che sembrava incollato all’asfalto.
Per i primi 40km ero così in ansia da non riuscire nemmeno a controllare la respirazione. Avevo, ad ogni pedalata, l’impressione di aver forato, presentita nelle lievi oscillazioni e nelle vibrazioni impercettibili, amplificate dalla paura; il soviet-kopertone è fatto di gomma da masticare e fede nel Sol dell’Avvenire, temevo il peggio. Benchè tentassi di scacciare questi pensieri, immaginavo tutti i modi orribili nei quali sarei potuta morire lì sulla strada. Se il copertone salta mentre sono in discesa a manetta, sulla sabbia, e passa un tir, vien fuori un art attack di budella. Se il vento mi butta poco poco a sinistra e sta arrivando un’auto sparata, ciaone. Eccetera. Ero così agitata da aver le gambe molli e il cuore fuori giri. Oltre ad un fastidioso dolore a tutta la zampa sinistra, dal piede alla chiappa, spuntato fuori ieri e non risolto tuttora.
Poi, pian piano, ho preso fiducia nella solidità della Signora. E’ stata comunque una gran fatica, ma con i pensieri a mare calmo si può affrontare tutto. E poi c'erano questi cartelli che dicevano chiaramente che le volpi devono proseguire seguendo le alci. Un chiaro segno d'incitamento.



A Kubinka ho incrociato l’enorme museo-campo militare che raccoglie carri armati delle due guerre mondiali. Non si può visitare se non previo appuntamento, in quanto parte di una base tuttora operativa… Mi è spiaciuto.




Così, comunque, ho guadagnato tempo.
Gli ultimi 20km fuori Mosca sono di autostrada vera e propria, come da noi. E, come da noi, vietatissimi alle bici. Il problema è che le alternative sono strade peregrine che triplicano il kilometraggio. Sorte per sorte, l’ho tentata fino alla fine. Mi sono buttata in carreggiata e ho fatto, quasi trattenendo il fiato, quel pezzettino d’inferno grigio. 
Nessuno ha contestato la mia presenza di ciclovolpe, nemmeno una volante della polizia che mi è passata accanto. Certo è che, quando sono uscita da quel tratto malefico, ho tirato un sospiro di sollievo e mangiato una barretta a celebrazione della sopravvivenza.
A quel punto mancavano circa 30km all’arrivo. Si susseguono paesini anonimi, inglobati ormai nella mastodontica periferia della capitale, che han perso confini e identità. La strada, sempre arteria a scorrimento veloce, corre chiusa nelle pareti antirumore e si attraversa solo con appositi ponti a scale. Altra roulette russa per il traffico caotico, il vento e il poco bordo.
Ma l’adrenalina e il desiderio di arrivare all’agognato cartello che segnava l’ingresso in città mi han spinta su e giù per queste mostruose cicatrici d’asfalto che rigano la zona a ragnatela.




Ed eccolo. Il cartello. Minuscolo, su incrocio tremendo, ma inequivocabile. Mosca.
Mosca.



Dopo le foto di rito, perniciosissime a loro volta, la strada è diventata improvvisamente gentile. I marciapiedi larghi e buoni, le ciclabili, i sentieri nei parchi. Un inatteso regalo d’accoglienza.
Questo quartiere è un’oasi di pace, tranquillissimo, verde e pulito, dominato da palazzoni nuovi di dubbio gusto ma comunque piacevoli. Un altro mondo rispetto al delirio di clacson e polvere, ruderi e case scrostate dei paesini periurbani.











Sono a breve distanza dalla Collina Plokonnaja, ovvero “degli inchini” a 10km dalla Piazza Rossa; qui chi arrivava e partiva salutava Mosca con gesto deferente. Qui Napoleone ha atteso invano le chiavi della città. Qui, dagli anni Ottanta, sorge l’immenso Parco della Vittoria, che visiterò domattina prima di muovere verso il centro. Ricorda le vittime delle guerre patriottiche, soprattutto la seconda.
Per ora mi sono goduta il mini appartamento lussuosissimo,



il cielo bello, 



la zuppa ottima e molto moscovita



e la felicità di questa giornata intensa ma piena di soddisfazioni. Sono arrivata a Mosca, sulle mie zampe, ma per davvero!
Ah, e ho anche fatto il bucato. Che mica si può andare al Cremlino con le mutande randagie e il calzino buio!







domenica 28 agosto 2016

Ventisettesima tappa: da Vyazma a Mozhaysk. Gagarin, i campi di Borodino e tre vittorie pirriche





Borodino, 6 settembre 1812. 
E’ sera, la brezza fa rabbrividire quell’uomo piccolo dai desideri immensi. Si alza il bavero della divisa, ha un brivido come di febbre. Napoleone teme che i russi di Kutuzov, durante la notte, si ritirino verso Mosca, prolungando ancora e ancora quella massacrante avanzata nel cuore della terra degli zar. Vorrebbe finalmente una battaglia campale, decisiva, che gli permetta di spezzare la resistenza del nemico.
Avrà lo scontro. 
Avrà una vittoria. 
Ma non avrà la Russia.



Da un lato ci sono 130.000 uomini della Grande armata, che avanzano da mesi e sembrano esausti; lo si sente nel silenzio che regna tra le truppe, la sera prima della battaglia.
Dall’altro 125.000 russi, pronti a morire per la patria.
Da un lato i veterani di Bonaparte esaltati ancora dai valori della Rivoluzione. Libertè, egalitè. Fraternitè insomma.
Dall’altro uomini animati dalla volontà primordiale di difendere la terra e le donne, i campi, le case.
Mentre Napoleone conforta i suoi generali, mostrando un’accurata strategia d’assalto, tra le file russe passa in processione la Vergine nera di Smolensk, che fa bruciare negli occhi dei soldati lacrime bollenti di tradizione e patriottismo. Si levano preghiere come incenso, nel crepuscolo che ormai scivola alla notte
Due mondi. Due giganti.



Alle 5 del mattino i francesi iniziano a posizionare i cannoni. I nemici sono ancora lì, schierati. E lì restano, sotto al diluvio di proiettili che falcia migliaia di uomini. Il terreno è sassoso e impervio, i colpi rimbalzano e le schegge sono uno sciame di morte. L’intero esercito è ammassato su un fronte di pochi kilometri, a file serrate. Muoiono sul posto, i russi, uno sopra l’altro. Non hanno paura. O forse sì, ma non cedono.
La battaglia si protrae fino al tramonto. Si susseguono scontri di cavalleria pesante e leggera, di fanti, di artiglieria. Tutto è fumo, cadaveri, urla di rabbia e dolore. C’è così tanto sangue, a terra, che si cammina in un fango rosso.
I francesi perdono 35.000 uomini. I russi 50.000. In 12 ore.



Alle 6 di sera l’esercito di Kutuzov si ritira in buon ordine verso posizioni più arretrate, in direzione Mosca. E’ stato sconfitto. Ma in maniera non certo decisiva. Napoleone ha lasciato sul campo troppi soldati, tra cui tanti generali ed ufficiali. Non ha voluto lanciare all’assalto la Guardia imperiale. Non ha spezzato la difesa russa. E si sta dirigendo proprio verso le fauci spalancate dell’inverno moscovita che si mangerà lui, le sue brame e la sua armata.
Napoleone sa di aver vinto una vittoria di Pirro. Tolstoj e tanta tradizione parleranno della battaglia di Borodino (o della Moscova), di quel 7 settembre, come una prova del coraggio e dell’amor di patria dei russi.



Una dimostrazione di forza. La Russia non si fa mettere il giogo dai piccoli prepotenti d’Occidente.
La storia si ripete 220 anni dopo. A metà ottobre del ’41 i nazisti conquistano la zona, arrivano fino alla città di Mozhaysk (dove mi trovo ora). Ma è una vittoria solo momentanea, di pochi mesi. Il 20 gennaio ’42 l’Armata rossa riprende possesso delle città, e agli invasori non fa sconto alcuno.



C’è persino un detto, in russo: “Spingere qualcuno di là da Mozhaysk”; significa ricacciare il nemico indietro, lontano da Mosca.
Sarà per questo che anch’io son ferma qui, appiedata come ieri?





La giornata è stata lunga e faticosa pure per me, con la mia piccola ed estiva campagna di Russia.
Questa mattina ho rimesso in sesto la Signora alla bell’e meglio, con la camera d’aria vecchia e inaffidabile (eh, appunto). Ho passato circa tre ore per le strade di Vyazma, battendo ogni negozio, centro commerciale e mercato. Nessuno vendeva ricambi per bici. E’ stato frustrante. Ogni volta venivo respinta con un sorrisetto ironico, tipo “Ma che cazzo vuoi? Ripigliati e usa la macchina come tutti”. Che di meccanici d’auto è pieno. Mancano i ciclisti, quelli sì. Però ci sono i residuati bellici.



E nulla, m’è toccato ripartire così, con una camera d’aria che sapevo non avrebbe retto al peso e ai kilometri. Ho pedalato male, con l’ansia di forare ad ogni sobbalzo. La giornata era anche bellissima, ma con la Signora in ambasce e nessun ricambio le cose non potevano filar lisce. 



 
Infatti.
Una buca, un’altra, e ho sentito la Signora scodinzolare in modo anomalo. Gomma a terra, ancora.
Ero poco dopo Gagarin, città che si chiama così in onore di Yuri, nato nel ’34 in un villaggio lì vicino.
Stavolta non avevo nemmeno la possibilità di riparare alcunché, e m’è toccato mettermi lì buonina a bordo strada, in attesa di qualche anima pia, un Sergej, un angelo in mimetica.
A recuperarmi questa volta è stato Andrej, taxista, chiuso nel suo silenzio di sudore e dopobarba.
Sul cruscotto le icone e un santino a forma di dollaro.



Anche oggi l’ultimo pezzo di tappa s’è dovuto far così, e cara grazia.
A Mozhaysk, dove sono tuttora, ho perso gran tempo a cercare l’ostello. Perché era in questa via qui, in mezzo agli orti. 






Si tratta di uno dei luoghi più orridi in cui mi sia capitato di dormire. Uno studentato per giovani compagni poveri. Per fortuna son da sola nella camerata. C’è puzza di marcio. L’acqua non è potabile e sulle coperte camminano insetti di dubbia provenienza. Ma con 5 euro hai letto, bagno e colazione. Un affare!







Appena arrivata, dopo le formalità con la spiccia Irina (e la scimmia alle sue spalle)




mi son subito messa all’opera per riparare la Signora. Ho anche trovato, in centro, un ciclista degno di tale nome.




 MA. Qui si usano le camere d’aria con la valvola cicciona, che non passa nel foro del mio cerchione. Non se ne esce. Ho armeggiato tutto il pomeriggio, ma non c’è verso di incastrare le due cose se non spaccando tutto peggio di quanto già non sia.



Ora, però, sono riuscita a mettere insieme una camera d’aria più o meno buona, assemblando valvola, toppe e madonne. E di questo son felice. Solo che mo il copertone fa le bizze e non sta al suo posto. Quando metto in pressione c’è sempre un bordino che salta fuori, maledetto come Putin che semina le graffette bucaiole sull’autostrada. Con tutto il prolasso di camera d’aria che sbuca fuori e mi fa le pernacchie silenziose. Sta stronza.
Domattina mi toccherà l’ennesimo giro dal ciclista. Se trovo un copertone (e perché no?) con la camera d’aria Frankenstein arrivo a Mosca. Che oh, l’ingresso in città è proprio domani! Mi fermerò in periferia, così da lasciarmi gli ultimi 10km, fino alla Piazza Rossa, tranquilli, dopodomani. Quelli li faccio pure a piedi, chi se ne frega. L’importante è svoltare domani.
Di Mozhaysk, oltre ai vicini campi di Borodino, non ho visto che il ciclista e la zona della stazione. 






Ci sarebbero un paio di chiese meritevoli, ma vediamo come si mette la situazione con la Signora. Non è in forma, non vorrei affaticarla.
Quel che ho visto, comunque, è una città affollata e polverosa, piena di zingari, cani randagi, vecchie che campano a bordo strada e barboni nella monnezza. Sembra di essere in un posto brutto del Medioriente. Ci sono questi mercatini lucidi (crasi vorace di luridi + sucidi). Quest’umanità da formicaio anarchico. Questa Fez alla latitudine sbagliata. Occhi sottili, affilati come coltelli. Sorrisi da lupo sdentato, nel piscio delle luci al neon delle insegne.








E pescetti. E pescioni.





Però c’è anche questo Impero della luce alla Magritte.



E questa ciminiera, che è evidentemente un uomo col cilindro che fa una carezza sulla testa alla sua donna.



E io, che non sfigurerei in una divisione di carristi russi a Berlino nel ’45.
(il polliche è in parte più scuro perchè esce dal guantino e si abbronza, stando sopra al manubrio. Gli altri diti invece son piegati nella presa e restan bianchi)


Che sono un po' sporca di stanchezza.
Ma non vedo l'ora di rimettermi in strada, che ormai è la mia casa, con il cielo come tetto e il vento addosso, l'orizzonte che mi abbraccia da lontano e tutta questa vita che si lascia mordere e baciare, ed è la mia.