mercoledì 30 agosto 2023

66-69. Todos los Santos, l'Hotel California e l'arrivo a La Paz. Il viaggio finisce qui, e qui ricomincia (+ come imballare una bici per l'aereo con scatole riciclate)












26/8
Cabo San Lucas-Todos (los) Santos
78km + 5 a piedi

Ragazzi, che storiaccia! Oggi è la penultima tappa. Il viaggio sta davvero volgendo al termine e si prospettano all'orizzonte gli accolli logistici della partenza, del rientro, del lavoro. E' persino arrivata la circolare del collegio docenti del 1 settembre! Non riesco neanche a immaginarmi seduta composta su quelle sedioline di plastica del nostro auditorium, tutte istoriate di cazzetti e svastiche da generazioni di alunni, ad ascoltare cose gravi ma non serie. Aiuto! Oltretutto tornerò a casa dall'aeroporto nella notte tra 31 agosto e 1 settembre, quindi avrò poche ore di rinconglionimento da fuso per farmi una doccia, indossare un ampio paio di occhiali scuri e un largo sombrero, e presentarmi a scuola in sella a un asinello, suonando maracas e bevendo tequila. Che mestizia! Sto piangendo dentro.
Mi consolo con il kilo e mezzo di pancake che il cuoco dell'ostello di offre per colazione. E' rimasto impressionato dal racconto della nostra impresa ciclistica e deve aver pensato che abbiamo bisogno di energie extra. Quindi ci serve un pansofà di pancake con sciroppo d'acero e banane mature. Spazzoliamo tutto, perchè, in effetti, consumiamo più di quel che reintegriamo. Ci approccia anche un'altra ospite, italiana, di Napoli, che viaggia sola. Con bus e voli interni ha fatto un giro simile al nostro, ma in tre settimane, e ora è qui a trovare una amica che abita a Cabo. Non abbiamo incrociato molti italiani, qui in Messico, e sempre meno mano a mano che ci siamo spostati a ovest. Tutti viaggiatori sui generis: solitari, giornalisti, artisti. Gente a posto, insomma!


Partiamo con calma, e con calma e pazienza dobbiamo affrontare i primi 30km, nei quali si concentrano tutte le salite e il dislivello di oggi, quasi 1000m di rampette e strappi. Il tutto controvento, su strade spesso piene di sabbia e, nel primo tratto, uscendo da Cabo, pure trafficate. Per la prima volta in due mesi e mezzo assistiamo ad un incidente vero e proprio: un pick up lanciato a manetta centra in pieno un piccolo autobus che sta uscendo dal benzinaio per reimmettersi sulla strada, mentre un furgone cisterna evita la collisione per un pelo, uscendo di strada. Per fortuna nessuno si fa male e i danni si limitano ai mezzi... Ma che spavento! Via, via, torniamo al deserto, che è meno pericoloso. 

Le colline di questo primo tratto di tappa sono verdissime, coperte di vegetazione fitta e bassa, tra cui spuntano, alti e cupi, i cactus, che paiono spesso omini stilizzati con le braccia alzate, pietrificati in una danza scomposta, o in un saluto grande. Ciao saguari!







Poi la strada si fa largo tra le ultime propaggini della Sierra e sbuca di nuovo sulla costa, con l'oceano in vista, grandioso occhio spalancato al cielo, abisso su abisso di impenetrabili chiarori. Il Pacifico ci accompagna da qui per il resto del tragitto, ed è lo sfondo esatto che incornicia il nostro andare. Non c'è abbraccio d'orizzonte più bello.













Le colline non smettono di metterci alla prova, ma in modo sempre meno arduo e impegnativo. Le rampe diventano gentili fianchi su cui lasciar rotolare le bici, e, incredibilmente, non fa nemmeno così caldo: il sole è spesso velato e, a est, sulle vette della Sierra, sembra si stia addensando addirittura un temporale.









Di paesi, nei primi 50km, ne passiamo pochissimi, tutti minuscoli e lontani dalla strada, verso la costa. I più sono segnalati solo per i centri che offrono tour nel deserto (in quad, a cavallo, con i cammelli, in ATV) o per gli appartamenti in affitto. Non mancano i luoghi che offrono opinabili ritiri spirituali, detox digitali e sociali di dubbia moralità e altre soluzioni a problemi che il primo mondo si è inventato, per star comunque male e dare un nome al vuoto che divora da dentro.

Facciamo una sosta al microejido di Plutarco Elias Calles che, non so perchè, su Maps è segnato in caratteri cirillici. Qui c'è un negozietto dove facciamo scorta di acqua e qualche nocciolina. Quando chiedo alla ragazza se ci sia un bagno, mi fa entrare in casa, sul retro, in una corte incasinatissima, piena di rottami, spazzatura, abuelos, bimbi, frutta, polli e cani, e mi fa usare il suo privato.






fanno tutto, anche le palapas!

cercano, tra le altre figure, un camellero. Qualcuno interessato?

Ripartiamo, dopo aver contattato l'ostello di Todos Santos dove ho prenotato. Ormai non mi fido più dei siti e delle mail, e ho bisogno una conferma a viva voce, o scritta per messaggio. Lo staff mi rassicura, ci aspettano. E quindi via, per gli ultimi 30km, che sono quasi in piano, ora.







Arriva finalmente il momento di lasciare la statale e imboccare la strada che conduce in paese, stretto tra basse colline e l'oceano.




Per raggiungere l'ostello dobbiamo lasciare la strada principale. Anche qui, fuori dalla via che passa in centro, non c'è asfalto, ma gran sabbia. Per fortuna abbiamo i copertoni tassellati! Anzi, ho. Gigi ormai ha una bici con scarpacce spaiate.



Tra palme e cactus, mentre la musica echeggia dalle finestre aperte, aggiungiamo l'ostello, che costa come un hotel di lusso in altri luoghi del paese, ma è comunque l'opzione più economica, tolto il campeggio. Ci accoglie l'host con un sorrisone: anche lui è appassionato di bici e ama la MTB. Ci dà la camera, che è, in realtà, una casetta in miniatura, coloratissima e decorata da una artista franco-svizzera, Linda Kocher (le ho scritto su IG per farle i complimenti!).






Dopo esserci lavati e riposati un po', usciamo per ammirare il famoso tramonto sull'oceano che dà spettacolo ogni sera qui a Todos Santos e richiama un numero sempre maggiore di turisti, messicani e internazionali. La spiaggia è nascosta dalle colline, e per vedere il Pacifico (in questi punti non balneabile per l'insidiosa risacca) bisogna camminare tra sentieri e sterratini sempre meno abitati, salvo le ville e le case vacanze che si ergono nei punti più panoramici.







Non facciamo in tempo a raggiungere la battigia prima che il sole scompaia del tutto dietro l'ultimo orizzonte, ma riusciamo comunque a goderci lo spettacolo dalla collina/mirador che affaccia alla spiaggia, tra i palmeti e le dune di sabbia.




un serpone!

Dopo aver bevuto la luce lilla e rossa fino all'ultima goccia, torniamo verso il centro, a far spesa, per poi cenare in ostello, mentre un gruppo di surfisti americani canta e suona chitarre, e un ragazzo biondone flirta con l'host, che sembra abbastanza a disagio. La cena è allietata anche dalla presenza di due gatti tanto coccolosi quanto affamati e ficcanaso, che mi ricordano molto i miei. Ad esempio, non mi permettono di manovrare il cibo in santa pace. Saltano sulla tavola per rubacchiare e tentano ogni strategia pur di attirare attenzione. I gatti fanno i gatti in tutto il mondo!



La sera trascorre poi tranquilla, nell'aria finalmente fresca, con risate e musica in lontananza e il profumo intenso della frutta maturissima, quasi pronta a fermentare, che casca dagli alberi del cortile (mango, soprattutto. Mango a dirlo).

Questo pueblo magico, che è un mix curioso tra il turistico, il new age e il volutamente primitiveggiante e poco modernizzato, gode di un clima mite tutto l'anno, come fosse sempre primavera, ed è perciò chiamato la Cuernavaca della Baja Sur. Grazie a questo è un'oasi di palme e coltivazioni di frutta tropicale, e non una distesa di cactus e cespugli come i dintorni. La zona, prima della conquista, era popolata da Guaycuras, che qui trovavano acqua dolce e conchiglie. Gli europei fondarono una missione subordinata a quella di La Paz solo nel 1724, abitata stabilmente nell'anno successivo. Un gesuita di Lodi, padre Taraval, ne fece una missione indipendente nel 1733. L'anno successivo tutto fu distrutto durante la rivolta indigena, e Taraval si salvò a malapena, fuggendo di nuovo a La Paz. I nativi furono poi ripagati con la stessa moneta, sia con le armi, sia con le malattie infettive (morbillo, vaiolo e sifilide, portate in dono sulle navi provenienti dall'Asia). Morirono 5/6 degli indigeni in meno di dieci anni. Nel 1768 i gesuiti furono espulsi dai domini spagnoli, e subentrarono i francescani, prima, e i domenicani, poi, anche se ormai la missione aveva perso importanza. Nel 1840 fu abbandonata del tutto. In quegli anni ci furono schermaglie con navi cilene intenzionate a sottomettere i porti principali della penisola. Nel 1842 le terre della chiesa furono ridistribuite, con resistenze e battaglie conseguenti. Ma iniziò così il periodo più florido della città, che si specializzò nella produzione di zucchero di canna. C'erano ben 8 aziende attive, che portarono ricchezza e lavoro; si costruirono edifici coloniali, teatri... E alcuni artisti si trasferirono qui, dando a Todos Santos quell'aspetto di rifugio dei creativi belli e maledetti che ha un po' ancora oggi. Durante l'invasione statunitense si combattè qui a lungo, e persino l'ultima battaglia, a guerra già quasi finita, motivo per cui la Baja non divenne mai California a stelle e strisce. I gringos furono cacciati con olio e acqua bollente, dopo aver ceduto alle lusinghe delle donne locali. Lo stesso avvenne poco dopo con i francesi. E così via, di guerra in guerra, fino al secolo breve, quando il boom dello zucchero si arrestò a causa della siccità e del crollo dei prezzi. Anche la coltivazione della frutta, ripiego inevitabile, negli anni '90 fu funestata da malattie delle piante e invasioni di moscerini. Perciò molti terreni furono ridestinati al turismo. Tra fine anni '90 e primi 2000 iniziarono a ritirarsi qui artisti, musicisti, pittori e scrittori statunitensi, marcando nuovamente l'impronta culturale di Todos Santos. Quindi sono state aperte gallerie d'arte, botteghe di maestri artigiani e si organizzano festival di ogni genere. Questo ha portato anche discreta migrazione, attratta dall'offerta di lavoro. C'è anche un hotel... Ma ne parliamo domani!


27/8
Todos los Santos-La Paz
87km

Oggi è l'ultima tappa. Questo pensiero mi agita al punto da disturbarmi il sonno. Non so perchè. Forse vorrei che il viaggio proseguisse. Forse vorrei tornare, ma senza la fatica logistica e organizzativa che ciò comporta. Forse non vorrei tornare affatto. Dalle 6, comunque, sono sveglia, e inizio a brigare per chiudere le borse per bene, per questa giornata importante che mette un punto fermo. Poi preparo la colazione, in compagnia di Piña



Quando torno in camera, trovo Gigi che smadonna: ha forato. Ancora. Anche oggi. Anche l'ultimo giorno. Ma che sfiga! Ha ben tre minuscoli fili di acciaio conficcati nel copertone, come i chiodi della croce. E quindi, prima di bere il nostro sacrosanto tè al miele, via di riparazione. Siamo già sudati marci alle 7 del mattino. 


Sistemato tutto e contattati gli host di La Paz, che ci concedono un soggiorno nella bellissima Casa turquesa, ci lasciamo l'ostello alle spalle, ripercorrendo le vie di sabbia in salita, verso la statale. Altra faticaccia da infarto di prima mattina.





Finalmente torniamo all'asfalto, anche se non alla pianura. Attraversiamo il centro della cittadina, che ancora sonnecchia. I negozi sono chiusi, per lo più, e qualche ciclista in MTB sta allacciando il casco per una pedalata tra le colline. Inevitabilmente passiamo davanti a quella che è ed è stata l'attrazione turistica più famosa di Todos los Santos: l'Hotel California. La leggenda metropolitana, fomentata dai proprietari, vuole che la famosissima canzone degli Eagle omonima sia stata composta dopo un soggiorno proprio qui. Per anni l'Hotel California ha venduto questa storia, attirando curiosi, fan e turisti. Peccato si tratti di una bufala! Nessuno dei membri della band statunitense ha mai alloggiato da queste parti, e la canzone non fa riferimento a questa struttura. C'è stata anche una lunga controversia giudiziaria, vinta dagli Eagle, che ha smentito del tutto la menzogna, gran campagna di marketing a suo tempo, con tanto di bus organizzati, concerti con cover band e feste a tema.




Noi ci fermiamo giusto per una foto, e proseguiamo tra gallerie e negozietti. Passiamo oltre anche al centro culturale, dove ci sarebbero dei bei murales a tema rivoluzione e la ricostruzione di alcune abitazioni tradizionali. Non abbiamo testa, oggi, per attardarci. C'è un'ansia dell'arrivare, del finire, che ci spinge avanti. 







I primi kilometri, come sempre, ci rimettono al nostro posto e ci fanno tornare umili. Salite, vento contrario, fondo ballerino, cani che ci inseguono... Insomma, rallentiamo, rallentiamo tantissimo, e gli 80km che ci separano dalle meta sembrano allungarsi all'infinito, come se srotolassero per anni luce tra galassie lontane. La Paz è un puntino microscopico, una stella di altri mondi.


Su una delle salite, mentre vado così piano che son poco meno che ferma, incrocio lo sguardo con Pacho l'orso. E' lì, abbandonato, nella sabbia. Non è malconcio, rotto o lurido, come tanti giocattoli che si vedono tra l'immondizia abbandonata in giro. E' in buona salute, solo non ha più la bocca perchè ha visto cose che non può raccontare. Che fare? Lasciarlo lì a marcire? Mai! Poi è l'ultima tappa, un carico extra è concesso. Quindi imbarco Pacho, sotto allo sguardo incredulo di Gigi.




A parte questa piccola diversione, la strada prosegue diritta, implacabile, ora sull'altiplano. Le salite ci risparmiano, ma il vento contrario imperversa. Quasi non incrociamo paesi, se non gruppi di case, una bodeguita, un benzinaio sparsi... E due statue di biciclette giganti.




Il resto è cielo, azzurrissimo chiaro, inondato di luce che quasi lo fa sbiadire, cactus, enormi, secolari, imponenti come colonne di tempio, e strada.






Dopo una breve sosta dove commetto l'errore di mangiare troppe noccioline, salatissime e piccantissime, che mi funesteranno con una sete e un'arsura implacabili, arriviamo alla periferia di La Paz. Sono le due del pomeriggio, fa un caldo demoniaco. L'acqua è rovente, la bici scotta, il casco scotta. La strada è spesso rovinata di buche, crepacci e mucchi di sabbia, e il traffico compare, tutto all'improvviso, dopo una mattinata di grande assenza e meraviglioso silenzio. Gli ultimi 15km sono pesanti. Si va piano, nel meriggio torrido, respirando i gas di scarico delle vecchie auto arrugginite, mentre la bici si impenna e scalcia per l'asfalto in pessime condizioni. Per fortuna, una volta in centro, la situazione torna tranquilla.




Una volta davanti all'indirizzo di quella che sarà la nostra casa nella capitala della Baja California del sud, ci vengono inviati i codici per accedere al cortile e all'appartamento. Tutto è bello come sembra, e, finalmente, l'ansia dell'arrivare-arrivare si placa. La prima cosa che facciamo è sbaraccare le borse, dove tutti i nostri averi sono stati compattati ogni giorno con precisione geometrica. Fuori tutto, tutto in lavatrice, o a prender aria! Le bici possono ora riposare un po' nel balconcino interno.






Sulla Pina volpina noto l'effetto che il sole messicano ha avuto. Metà si è scolorita quasi del tutto! 





Siccome è presto, dopo la doccia decidiamo di fare una passeggiata sul lungomare, senza meta precisa. Solo per goderci il momento. E ce lo godiamo, a pieni polmoni, ancora storditi dalla consapevolezza, da rielaborare, di aver chiuso anche questa avventura.
Di La Paz parliamo meglio domani. Per ora bastino le immagini serene del malecon, dove si è appena conclusa una gara di fuoristrada da sabbia, e delle sue palme, delle statue e delle onde che sussurranno appena. Ci sono anche dei mercatini, tra cui passeggiamo mescolati ai turisti. Noi non siamo turisti, però. Siamo viaggiatori.


























Quando ormai il sole sta tramontando, siccome Gigi è gonfio di ansie e ansiette riguardo al recuperare il materiale per imballare tutto, decidiamo di andare in periferia, nella zona dei centri commerciali, alla ricerca di scatoloni per le borse, nastro adesivo e pluriball per le bici. Ci sono Home Depot e Walmart, qui o là dovremmo trovare tutto. Qui a La Paz i mezzi pubblici sono un po' meno immediati da capire e usare, quindi usiamo un'app tipo Uber, che si chiama Didi e ci consente di avere un passaggio immediato da dove ci troviamo alla porta del centro commerciale, per un prezzo paragonabile a quello dei mezzi pubblici (3 euro da dividere in due). All'Home Depot troviamo pluriball e nastro adesivo, ma non le scatole. Quindi andiamo da Walmart e ci facciamo dare quelle della frutta destinate al macero, risparmiando anche qualche soldino. Già che ci siamo, facciamo spesa per la cena e rientriamo in appartamento sempre scortati da un autista Didi. Scarichiamo tutto e vinciamo anche il gatto strabico, grasso e coccolone della vicina.


Dopo cena, inizia la giostra delle lavatrici, e intanto trovo il trasporto per raggiungere l'aeroporto, che dista 10km da qui. Serve un van, con gli scatoloni che dobbiamo portarci dietro. Chatto su whatsapp con un autista, ci accordiamo su tutto, e via, anche questa è fatta! Domattina andremo dal ciclista con cui si è sentito Gigi a ritirare gli scatoli per le bici. Poi un bagnetto nelle spiagge belle, lontane dal porto, e alle 14 ho appuntamento dal tatuatore. Quest'anno scegliere i soggetti è stata un'impresa, ci ho impiegato due mesi! Il Messico è arte pura, in mille forme e colori.
 

28/8
La Paz

Oggi è una giornata di commissioni e appuntamenti. Dopo una ricca colazione nella nostra bella casetta azzurra, usciamo nel caldo già torrido che ci fa infradiciare di sudore i vestiti nel giro di un minuto. Dobbiamo recuperare gli scatoloni per imballare le bici, e il luogo migliore è il negozio di un ciclista. Gigi ne ha contattati alcuni e due, a circa un kilometro da casa in direzioni diverse, hanno risposto positivamente. Andiamo al primo, ma è chiuso. Andiamo dal secondo ed è aperto e ha le scatole, ma ce le fa pagare 100 pesos (5 euro circa). Che volpone! Il bello è che noi, ignari, pensiamo che ce le regali, come accade quasi sempre (tranne a New York, dove le abbiamo pagate 50 dollari e un paio di diti medi), quindi usciamo pacifici, per poi essere inseguiti e richiamati alla cassa. Siamo troppo vicini agli USA, c'è una cattiva influenza!
In ogni caso facciamo l'usuale pellegrinaggio carichi come i muli, sotto allo sguardo incuriosito dei passanti, e portiamo il bottino in appartamento. In ciò, passiamo davanti a una chiesa ancora in costruzione, mai finita, ma già aperta e consacrata, con i fedeli in preghiera sulle panche.




Poi ci spostiamo in una spiaggia un po' fuori dal centro, in modo da allontanaci dalle acque non pulitissime del porto e degli imbarcaderi. Dopo una camminata che ci frigge ciò che resta del cervellino, raggiungiamo una bella caletta di sabbia e ghiaina di conchiglie, deserta e tutta per noi. Solo quando stiamo per andarcene scopriamo che sotto ad una delle barche rovesciate vive una ragazza senzatetto, che, mentre leviamo le tende, sbuca fuori ed entra in acqua a lavarsi.






Rientriamo in casa giusto in tempo per una doccia veloce: alle 2 mi aspetta il tatuatore per i sigilli di rito. Ogni viaggio si chiude così, con il timbro indelebile, e questa volta non può essere diversamente. Oltretutto siamo in una terra dove il tatuaggio, oltre a esistere da millenni come forma di arte, è diffuso e ha le sue scuole, i suoi stili, tradizionali e non. Insomma, il Messico è cultura, e in questa c'è anche l'inchiostro sottopelle. Qui, e non chiedetemi perchè, usa che i tatuatori siano anche barbieri e spesso barmen/birrai. E' tutto un unicum. Quindi lo studio è dietro alle poltrone dove molti si stanno facendo sistemare barba e capelli, e accanto al bancone con le birre in fresco. Il tempo si ferma tra attese, disegno, consultazioni con i due artisti che mettono mano ai miei lavori e realizzazione vera e propria. Passano circa 4 ore, ma il risultato è incredibile. Ho scelto, dopo grandi ricerche durate due mesi e indecisioni infinite, due disegni. Il primo è un cuore che contiene il deserto/mare, un cactus, una testa di pietra di quetzalcoatl e uno scheletro; intorno la citazione della Kahlo: "Viva la vida". Il secondo è un giaguaro azteco che sta per mangiarsi un cuore, con un ollin sullo sfondo, che è il simbolo che sta al centro della Pietra del sole e rappresenta il movimento, il trascorrere del tempo, la circolarità e la dualità delle stagioni. Intorno una citazione di Octavio Paz, tratta dalla sua "Pietra di sole": amar es combatir. Ho aggiunto: sin sacrificio. In riferimento al cuore mangiato dal giaguaro, ovviamente!






Finita la seduta, che si è svolta tutta a una temperatura di 15 gradi, con i condizionatori sparati a manetta, mi sembra di esser scesa nell'averno, per il caldo feroce, la luce accecante, i doloretti da aghi sottopelle. Ma poi raggiungo il lungomare, dove ho dato appuntamento a Gigi (che è rimasto in casa a preparare i suoi bagagli) e ritrovo la pace dei sensi, davanti a un tramonto che scioglie ogni nodo. Non manchiamo, già che siamo in zona, di fare una passeggiata in centro, un poco all'interno rispetto al lungomare, per vedere la piazza principale e la cattedrale. L'edificio risale alla  seconda metà dell'Ottocento, e sorge dove si trovava la prima missione fondata qui dai gesuiti 150 anni prima, e poi abbandonata e caduta in rovina. E' dedicata a Nostra Signora della Pace, nemmeno a dirlo!







La sera, dopo cena, mi porto un po' in pari con l'imballaggio bagagli, visto che Gigi ha già quasi finito. Smonto la bici, la impacchetto per bene con pluriball e cartone, e la infilo nella scatola, dove ci sta a pennello, sembra la sua custodia! Poi riempio la scatola di frutta (mele) recuperata da Walmart (ma che geni del riciclo e del risparmio siamo?!) e riesco a farci stare tutto il contenuto delle 4 borse, e le borse stesse, tranne una con il poco di bagaglio a mano che porterò meco nelle diecimila ore di voli e viaggi. Ci sta tutto, compresa la mega guida Lonely Planet che ho avuto il piacere di trascinarmi dietro sui 31.000m di dislivello in salita, per oltre 4000km. E non è nemmeno l'unico libro che ho portato. Però l'ho usata tantissimo, alla consunzione.
Soddisfatta dell'accrocco, vado a dormire serena, con l'idea di sigillare tutto con nastro adesivo in orari più consoni al rumore che questa operazione del demonio comporta.

29/8
La Paz

Oggi è l'ultimo giorno interamente in terra messicana. Domattina abbiamo il primo volo che ci porta a Città del Messico, dove faremo un lungo scalo di quasi 9 ore. Da lì ripartiremo alla volta di Londra. Altro scalo. Infine arriveremo a Milano, la sera del 31, dopo due giorni tra aerei, aeroporti e fusi orari che ci mangeranno 9 ore in un sol boccone. E poi via, direttamente a scuola per il collegio docenti del 1 settembre. Per protesta, potrei andare a far l'eremita su uno scoglio con i pellicani.

Intanto ripesco da una taschina remota le chiavi di casa. A proposito di simboli.


Dopo colazione ci dedichiamo alla chiusura degli scatoli. Riesco a cacciar dentro anche Pacho l'orsone peluche, che ha fatto un giro in lavatrice e ora è perfetto come imballaggio. Ormai sono una professionista assoluta della preparazione bici e borse per i voli, potrei farlo di mestiere! Speriamo che anche gli addetti di terra di Aeromexico siano un po' più svegli di quelli di AirEuropa, e che facciano arrivare tutto a destinazione senza la settimana di ritardo e i molti microinfarti subiti a giugno, quando siamo atterrati a Cancun.




Quando abbiamo finito gran parte del lavoro, decidiamo di andare a visitare un paio di musei in centro. La Paz non è una città che i turisti visitano per la sua offerta culturale, ma, comunque, non manca di alcune chicche che meritano un passaggio. Anche perchè, con i tatuaggi freschi, a me son vietati bagni e sole diretto (e a Gigi non interessano a prescindere, anzi, più si sta lontani dall'acqua e dalla spiaggia, più è contento). Uscendo incontriamo Bob, che ogni volta che resta da solo per trenta secondi inizia a miagolare forte in cerca di umani, coccole, cibo.



Ci portiamo quindi verso il Museo Regionale, sempre passando per il malecon e i suoi pellicolli, pelliquelli, pelliquanti. Siccome abbiamo parecchio contante in pesos da spendere prima di tornare in Europa, Gigi decide di concedersi una seconda-seconda colazione, in un baretto che fa frappè e altre delizie con caffè, cioccolata e latte.





Cammina e cammina, eccoci al museo, che è deserto e molto snobbato, soprattutto dagli stranieri. La custode è quasi stupita nel vederci! In realtà le esposizioni, pur semplici e ridotte a quattro sale, illustrano in modo molto chiaro la storia della Bassa California, in particolare quella meridionale, dalla preistoria al secolo breve. Due parole al volo sulla storia di La Paz: i primi esseri umani giunsero qui qualcosa come 14.000 anni fa dall'America del nord, dopo il passaggio a piedi dello stretto di Bering. Erano nomadi con economia di sussistenza. Tra questa epoca e l'arrivo degli spagnoli, si formarono tre etnie distinte, con diverse culture e usanze: pericues, guaycuras e cochimies, che vivevano a sud, centro e nord della penisola.




sepolti involtolati come tamales, con le ossa dipinte di rosso


I primi spagnoli ad arrivare furono gli uomini di Cortés, e poi lui stesso, nel 1535. Inizialmente presero la penisola per isola, anche affascinati dai racconti di luoghi leggendari, colmi d'oro e abitati solo da donne bellissime sempre ignude. Cortés e i suoi, nonostante i tentativi di fondare insediamenti stabili (in primis qui a La Paz), non riuscirono a superare le difficoltà di approvvigionamento e logistiche, oltre ai rapporti mai pacificati con i nativi (anche perchè gli europei si erano presentati con un sorriso e stupri di massa). Dopo tre spedizioni e un gran dispendio di uomini e mezzi, i tentativi furono abbandonati. Poi giunsero i cercatori di perle e i missionari, gesuiti prima, poi cacciati, e francescani e domenicani poi. Anche qui la rivolta settecentesca delle popolazioni native portò distruzione, morte e vendetta. Anche qui si combatterono tutte le guerre dei secoli XIX e XX, senza risparmiarsi.





Le guide che controllano le sale sono così stupite di aver visitatori che sono super gentili e disponibili, e non perdono occasione di dare spiegazioni e aggiungere informazioni a quelle già presenti nei pannelli.
Già che ci siamo, gettiamo uno sguardo alla temporanea di un collettivo di giovani artisti che tratta miti, leggende e storia della Baja California. E' incredibile come l'arte fiorisca ovunque, qui, e sia in grado di rinnovarsi di continuo, in temi e stili, pur mantenendo forti radici che pescano in profondità nella tradizione.






Sempre sull'onda di questa consapevolezza, visitiamo anche il nuovissimo Museo di Arte (contemporanea), inaugurato da pochi anni e ospitato nell'ex palazzo municipale. All'interno gli spazi espositivi sono curatissimi e ci sono temporanee di diversi artisti, oltre a mostre fotografiche spettacolari.





Una particolare mi affascina: si intitola "Identità".








Bellissimo anche questo mural con la storia della Baja. Le foto sono dall'oggi a ritroso verso il passato.





Usciamo soddisfatti, per un'altra passeggiata sul lungomare, qualche acquisto (Gigi non aveva ancora comprato la boule a neige per la sua collezione ormai vastissima!), un gelato e un placido rientro a casa. Pur facendo caldissimo, il cielo si è annuvolato e sembra minacci pioggia, con tuoni già vicini. Pazzesco! Qui è un evento raro. A casa concludiamo la chiusura pacchi, leggiucchiamo, riposiamo. Ed ora sono qui a scrivere, nel pomeriggio dell'ultimo giorno in Messico. Domani si parte, per tornare a casa.


Gringo gazette! No bad news

Può darsi che scriva ancora qualcosa, riguardo a questo viaggio, e concluda in modo più degno, più poetico e meno asciutto. Ma non faccio promesse. Già di solito sono così stanca e non ne posso talmente più di pedalare di giorno e scrivere di notte, che salto persino le ultime tappe dei viaggi! Quindi chissà! Seguitemi sui social e qui, per scoprire cosa ci riservi il futuro!

El propósito de la exploración es tocar fondo,
tocar altura, tocar límites, tocar …
para ver si nos abren la puerta.